Film in ordine alfabetico
Antwone Fisher
di Denzel Washington (2002)
con: Denzel Washington, Derek Luke, Salli Richardson-Whitfield, Viola Davis, Kevin Connolly, etc.
L’esordio alla regia per Washington ruota attorno alla drammatica storia del Fisher del titolo (autore anche della sceneggiatura) e palesa una mano ferma, a tratti ineccepibilmente manieristica/formale, in altri momenti capace di dosate intuizioni personali, ma sempre estremamente misurate; così come misurato è l’approccio nella gestione degli aspetti laidi e torbidi della vicenda biografica (abbandono, abusi psicologici e sessuali, etc). Interessante il montaggio, soprattutto inizialmente, per la gestione delle ellissi temporali. Senza infamia né lode il giovane protagonista [Derek Luke] al suo debutto, mentre è perfettamente odiabile Novella Nelson nel ruolo di una spietata Tate / Tata. Soporifera e timbricamente trascurata la <fortunatamente> poco presente colonna sonora. Complessivamente un film introspettivo assolutamente casto che punta alla lacrima facile, ma genuina e intrattiene per due ore senza grosse difficoltà lasciano un ricordo buono, ma fievole.
Black Snake Moan
di Craig Brewer (2006)
con: Samuel L. Jackson, Christina Ricci, Justin Timberlake.
Come nel precedente “Hustle & Flow”, ancora Tennessee/Memphis, ancora musica (in questa pellicola non rap, ma più pertinente blues), ma questa volta il fulcro della storia è la metafora del legame (perfettamente rappresentato dalla grossa catena con cui sarà imprigionata la protagonista), non così oppressivo (catena lunga/tolleranza verso i continui adulteri), ma saldamente fissato a un termosifone (il calore del focolore domestico e le sue rassicurazioni). Il blues per cui un sempre convincente Jackson ha imbracciato per la prima volta una Gibson a ridosso delle riprese -ai fini di un realistica (e non male) performance musicale diegetica- si sposa, come da tradizione, con il canto del dolore per le proprie paure e perdite, ma diviene anche strada di ricostruzione o redenzione. Ben oltre l’aura moralistica che tende a patinare di tanto in tanto una storia tutt’altro che pudica (per quanto giustificata da un passato di abusi). Timberlake ha un ruolo di raccordo con il finale disperatamente ottimistico. Chi stupisce invece per immedesimazione attoriale e folgorante inedita sensualità è la Ricci che – facile parallelismo con gli abiti a parte – non si risparmia nel mettere a nudo una sofferta fragilità che muove a laica compassione.
Echi mortali
di David Koepp (1999)
con: Kevin Bacon, Zachary David Cope, Kathryn Erbe, Illeana Douglas, etc.
Nonostante come sceneggiatore abbia fatto la fortuna commerciale di tanti lavori diretti da Spielberg, De Palma, Howard, Raimi, etc, Koepp esordisce nel lungometraggio con un flop (“Effetto Black Out”/N.B. nello stesso anno ironicamente firma lo script di “Mission Impossible”). Tre anni dopo arriva invece questo film che se da un lato non aggiunge molto allo sviluppo del thriller paranormale/ghost movie, si fa tuttavia apprezzare per una regia e fotografia curata, un comparto effettistico non esagerato, ma pulito e soprattutto uno sviluppo narrativo capace – complice il binomio Bacon/Luca Ward – fino alla fine di destare l’interesse dello spettatore. Meno fortunata la traduzione del suggestivo titolo originale (“Stir of Echoes”) come da tradizione italiana ribattezzato con palesi intenti di richiami da botteghino. P.S. Esiste un evitabilissimo sequel (non di Koepp) ancora inedito in Italia.
La classe – Entre le murs
di Laurent Cantet (2008)
con: François Bégaudeau, Cherif Bounaïdja Rachedi, François Bégaudeau, Juliette Demaille, Laura Baquela, Nassim Amrabt, Louise Grinberg, etc.
Quasi più un documentario -complice la naturalezza del cast- che film, questo lavoro scaturito da workshop d’improvvisazione da cui sono stati estrapolati i protagonisti e che mette in scena un anno scolastico di una problematica classe media nella periferia di Parigi. Un cast costituito da insegnanti volontari -tra cui lo stesso Bégaudeau, autore del romanzo da cui nasce questo lavoro- e reali alunni e genitori. La pellicola ci ricorda o insegna le difficoltà del mestiere/missione dell’insegnante (quando coscienzioso e non intento a godersi solo i privilegi del ‘posto fisso’), la fragilità dietro l’arroganza adolescenziale, le dinamiche difficoltose d’integrazione poli-culturale e l’ottusità dei protocolli gestionali scolastici. Il tutto appunto ‘tra le mura’ di un microcosmo dove l’apprendimento sembra l’unica possibilità di fuga da una realtà esterna scomoda e a cui si accenna con reticenza. L’eccessiva lunghezza alla fine è più che giustificata tanto dalla scelta registica d’immergersi empaticamente nella quotidianetà dei “personaggi”, quanto dalle tempistiche necessarie alla loro espressività non professionale, ma capace di regalare dialoghi o scambi di battute brillanti oltre la patina d’informale amatorialità.
L’ombra del testimone
di Alan Rudolph (1991)
con: Demi Moore, Glenne Headly, Bruce Willis, John Paklow, Harvey Keitel etc.
Storia di un legame amicale tra due ragazzine nato tra i banchi di scuola (come sottolineato dalla vecchia pellicola domestica visionata anche in coda al film) e destinato a spingersi in età adulta oltre il lecito morale; o perlomeno legale, date le attenuanti circostanziali. Al centro la subordinazione della donna che da vittima sceglie la strada del carnefice come unica possibilità (temporanea) di riscatto. Attorno un film che sembra più lungo del minutaggio dichiarato a causa di uno script non in grado di mantenere il giusto ritmo – nonostante la struttura analettica di base piuttosto semplice – e che scivola nella previdibilità sul finale. Keitel, presenza sempre gradita, ha le mani piuttosto legate nella sua funzionalità narrativa. Ironia del caso: il casus belli sono le avances di Willis alla Moore sposata pochi anni prima nella vita reale. Guardabile, ma assolutamente non memorabile.
Mommy
di Xavier Dolan (2014)
con: Anne Dorval, Suzanne Clément, Antoine Olivier Pilon, Patrick Huard, etc.
Meritatissimo Premio della Giuria a Cannes per il precoce e poliedrico artista canadese, capace di delineare dall’inizio alla fine senza cadute qualitative o di stile il tormentato e profondo rapporto d’amore tra una madre che cerca di ricostruirsi una vita e un figlio problematico, ma dalla personalità effervescente. Assolutamente meravigliose per coinvolgimento empatico alcuni ‘quadretti’ d’interazione familiare o amicale, straordinaria l’interpretazione dei protagonisti (su tutti quella di Anne Dorval e Suzanne Clément) e geniale il passaggio dall’asfittico aspect ratio 1:1 al full screen nei rari momenti di ariosa speranza.
Old Man
di Lucky McKee (2022)
con: Stephen Lang e Marc Senter.
Buon thriller psicologico, intimista, quasi reinhardtiano fatta eccezione per i flashback che concorrono a delineare il personaggio – mera stralunata spalla – di Joe [Marc Senter]. Lang a conferma del suo talento regge praticamente il film -sorta di piece teatrale cinematografica- sulle sue spalle. La fotografia sfiora intelligentemente la sovraesposizione in qualsiasi momento si corra il rischio di un’apertura verso un esterno che scenograficamente non esiste. Il finale che ricicla Senter nei panni di un odierno Carl McCoy rischia di rovinare l’equilibrio recitativo mantenuto fino a quell’istante, ma il film si salva comunque sul finale con l’idea del loop narrativo, riuscita metafora di un’esistenza tormentata e logorata da senso di colpa, solitudine e paranoia. L’unica componente orrorifica tirata in ballo per questioni di richiamo commerciale riguarda il deturpante lavoro dell’estetista sulle sopracciglia di Liana Wright-Mark.
Six Feet Under
vari – serie (2001/2005)
con: Michael C.Hall, Frances Conroy, Peter Krause, Lauren Ambrose, Freddy Rodriguez, Rachel Griffiths, Mathew St.Patrick, Richard Jenkins, etc.
Una delle migliori serie drammatiche (anche se come nella vita reale non mancano i risvolti tragicomici o surreali) di inizio millennio, imperniata sulla formula decesso-riflessione empatica con un cast assolutamente perfetto (dalla somiglianza fisica dei membri della famiglia di impresari funebri alla loro qualità attoriale) e in grado di gestire egregiamente parallele problematiche esistenziali: consapevolezza omosessuale, emancipazione sessuale, solitudine e autodeterminazione adolescenziale, rivendicazione o recupero esperenziale, etc. Scritta dal drammaturgo Alan Ball (fresco di Oscar per “American Beauty”) che ne ha chiesto la fine anticipata nonostante l’enorme successo in fieri; epilogo che si è poi tradotto visivamente dopo un accurato brainstorming tra sceneggiatori in ulteriore capolavoro che ne ha giustamente incrementato il valore cinematografico.
Sky Captain and the World of Tomorrow
di Kerry Conran (2004)
con: Jude Law, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Giovanni Ribisi, Bai Ling, etc.
Superato l’impatto iniziale del total fake scenografico, una fotografia (strategicamente) fluosa e un color grading indeciso, il film – a metà tra fantascienza anni’50 e il noir più politicizzato – si fa apprezzare per il raffinato impatto visivo, utilizzo di retro-tecnologia e i tanti omaggi cineastici. Spielgeriano fino al midollo per trovate sceniche, gestione sentimentale di coppia e perfino commento sonoro. Cammeo virtuale di Laurence Oliver fatto rivivere attraverso immagini d’archivio.
The constant gardener
di Fernando Meirelles (2005)
con: Ralph Fiennes, Rachel Weisz, Danny Huston, Hubert Koundé, Pete Postlethwaite, etc.
A conferma del talento dimostrato con il precedente “City of god”, il regista brasiliano miscela thriller politico, dramma sentimentale e documentarismo, con un ottimo montaggio – talvolta frenetico ai limiti del videoclip, altre quasi animato da suggestioni oniriche – che asseconda tanto la naturalezza di movimento degli attori quanto i loro sguardi. Il cast, di massimo rispetto ed essenzialmente britannico [con l’eccezione certo non qualitativa di Danny Huston] porta a compimento le direttive di un autore che riesce a infondere personalità e originalità anche all’interno di generi altrove facilmente vittime di cliché estrinsecativi. Coinvolgente sul piano emotivo, ma non meno su quello visivo. Cammeo del sempre ottimo Pete Postlethwaite (posticipato dopo breve comparsa) sul finale che oltretutto ci risparmia didascalici colpi di pistola.
The Raid – Redenzione
di Gareth Evans (2011)
con: Iko Uwais, Yayan Ruhian, Joe Taslim, Ray Sahetapy, Pierre Gruno, etc.
Ottimo action movie dal ritmo febbrile fin dai primi minuti e che vede un graduale passaggio dalla carneficina a suon di pallottole (il cast principale è stato sottoposto a un vero e severo addestramento militare) al corpo a corpo/arma bianca principalmente imperniato sul Silat, di cui il protagonista Iko Uwais è ottimo conoscitore. Riprese effettuate con stile documentaristico (alla steady si preferisce il fig rig) tuttavia impreziosito da un color grading cupo e desaturato che accentua il senso di angustia delle location perfettamente realizzate in teatro di posa. L’eccessiva lunghezza del combattimento finale porta alla memoria la monotonia dei vecchi arcade game con il mostro di fine livello.
Trading Paint – Oltre la leggenda
di Karzan Kader (2019)
con: John Travolta, Michael Madsen, Shania Twain, Toby Sebastian, Rosabell Laurenti, etc.
Poco riuscito tentativo di mettere in scena la classica (e trita) dinamica di incomprensioni tra padre e figlio, con prevedibile attimo di ribellione e smarrimento di quest’ultimo e finale ritorno all’ovile. Nel frattempo si ricorda il dolore passato, si cerca di ricostruire / allargare la famiglia, si ricorda e si rinsalda attraverso un sogno comune il valore dell’amicizia, si affronta l’ipocrisia e spregiudicatezza dell’antagonista e soprattutto si cerca di entusiasmare lo spettatore con un film di corse automobilistiche emozionante quanto un giro di Gioco dell’oca.
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